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Quel profeta venuto dalla Francia [David Cage & Beyond: Two Souls]

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Scrivere di getto, senza avere pensato, senza avere ponderato ciò che si dice: un crimine. E criminali sono tutti coloro che tale pratica la difendono, celando il grugno dietro la necessità, oggi, di «stare sul pezzo»; ché la rete incalza e se esci con tre minuti di ritardo Google se la prende e fa bisticcio. Eppure, e per fondati motivi, tendo in qualche misura ad essere accondiscendente con chi è tenuto a questi ritmi. Perché in fondo è bene ricordare che scrivere è anche un mestiere, pure nell'anno Domini 2013, sebbene l’arrogante 2.0 che scrive da mane a sera senza scrivere nulla avrebbe qualcosa da ridire a riguardo. Ci sono casi, poi, in cui qualcosa che si avvicina all’inflazionato flusso di coscienza può essere salutare. Rari, certo, ma ci sono. Ero quasi in procinto di finirlo ‘sto benedetto Beyond: Two Souls (adoro la mia lingua, ma questo prodotto non viene dal mio Paese, ergo), quando di colpo ho realizzato: e se lo scrivessi subito quest’articolo? Così, senza nemmeno chiamarla recensione, ché tanto mezzo mondo ha appena detto tutto e l’altra metà sa già come va a finire con i titoli di Quantic Dream. Volevo, ed infatti mi sono preso una pausa durata meno di diciotto-ore-diciotto prima di portare a termine quegli scampoli di trama che mi restavano. Sapevo che in un’oretta mi sarei liquidato tutto e che, in fondo, finisse come finisse avrei già saputo cosa scrivere. Bravo io? No, conosco David Cage. Da qualche giorno posso dire anche di persona, sebbene questo non faccia di me un militante all'interno della sua cerchia di amicizie. Invero conosco il Cage game designer, il Cage narratore, il Cage l’ambizioso che questo mondo vuole proprio cambiarlo. Ci prova da sempre, David, ed ogni volta non riesco a fare a meno di simpatizzare per lui, di sentirlo vicino, di tifare per questa sua causa forse persa forse trovata, ma che mi entusiasma. Sempre. I suoi lavori, oramai posso asserirlo con cognizione di causa, tendo ad accettarli per come sono già a scatola chiusa. Non si tratta di fede. Non c’è alcuna tendenza dogmatica a sorreggere tale atteggiamento. C’è solo l’impegno, l’eccitazione, la foga di un tizio francese ma di chiare origini italiane oltremodo affabile che ogni volta ti butta sul tavolo un’idea e te la fa amare. Mica ti chiede di farlo, ma va da sé che la passione è contagiosa, e quando una persona ci crede così tanto tu sei con le spalle al muro e non puoi far altro che assecondarla. In quest’ambito il confine con la follia è molto labile, ma poiché il mondo reputa da sempre folli le meglio figure questo basta e avanza per stare dalla loro parte e credere loro anziché il mondo. Quanto ci è piaciuto parlare e confrontarci su giochi come Omikron, e perché no Fahrenheit. Ma quanto! Lì c’erano i nostri sogni, le nostre aspettative, quello che avremmo voluto ma non osavamo chiedere; perché piccolini, perché ignoranti, perché… Troppi perché. Col tempo abbiamo imparato, sebbene non completamente, quali assordanti sirene si celassero dietro quelle sensazioni. Un’urgenza che è in fondo la componente in comune tra noi ed il buon David: quella di andare oltre, di capire cosa c’è oltre. Si dà il caso che «Oltre» sia anche la traduzione del titolo di questa sua ultima fatica. Un oltre che è aldilà, non visionarietà, s’intende. Ma in fondo ci avevamo un po’ sperato, quantunque lo scettico che è in noi era sempre pronto a fare il guastafeste, a dirci che oramai con certe cose si aveva troppa familiarità per cascarci di nuovo. Ed allora mi decisi: di Beyond: Two Souls non ne voglio sapere nulla finché non esce. Ed infatti sapevo poco, se non che ci fosse quel meraviglioso viso di Ellen Page ed il non meno affascinante Willem Dafoe. Ma non ci ho pensato più di tanto, nel senso che la presenza di attoroni non avrebbe spostato di una virgola il vero nodo della questione. Ancora, dopo un Fahrenheit ed un Heavy Rain, leggo di innumerevoli e competenti correttori di bozze sparsi per il globo a lamentarsi di una sceneggiatura debole, di un risvolto assurdo, di un intreccio che non convince. Tutti sceneggiatori, me ne compiaccio. Ma anche esperti di cinema. E qui emerge l'incognita, quella cosa per cui se fossi in Cage non ci dormirei la notte - e forse non ci dorme per davvero. Perché, infatti, la gente si sofferma così ostinatamente sul paragone col cinema? No dico, come mai visto che il paradigma che s’intende stravolgere è quello videoludico? Tuttavia non penso che la gente abbia torto, anzi. La gente lo sa e comincio a sospettare, con non poco timore, che la cosa in realtà sfugga a Cage. Quest’ultimo si è sempre riferito a sé stesso anzitutto come ad uno storyteller, uno che ha bisogno di raccontare storie così come di respirare. E dai con le conferenze, le interviste in cui con il suo solito, calamitante argomentare ci ricorda che l’uomo se le racconta dai tempi delle caverne, quando lasciava sui muri dei disegni più o meno notevoli. Tutte cose per cui, per ciò che vale, sono da sempre con lui. Cose che l’hanno reso ciò che è, sia come uomo che come professionista suppongo, e che senz’altro lo muovono visceralmente. D'altra parte molti non hanno invece realizzato a che livello operi il suo concetto di interazione, che non riguarda il personaggio o l'ambiente come la quasi totalità dei prodotti disponibili in commercio e non, bensì proprio la narrazione: qui e qui soltanto l'interattività viene realmente esaltata, qui ad ogni modo trova espressione. Cage chiede al giocatore di partecipare insieme a lui allo sviluppo del racconto, ecco tutto. Ma pur essendo chi scrive tutt’altro che ostile al concetto di tradizione, perché il cinema? Voglio dire, non basta più l’affermazione per cui il medium cinematografico rappresenti in qualche misura il parente più prossimo dei videogiochi. Nient’affatto. L’obiettivo è chiaro e da tempo dichiarato: intendiamo raccontare storie come mai successo prima d’ora, servendoci di questo mezzo come nessuno ha osato fare. Ed in fondo ogni conquista di Cage, grande o piccola che sia, passa sempre da questa prerogativa. È la sua tremenda ambizione ad avergli guadagnato gli onori e la stima di cui meritatamente gode. Ma come il diavoletto Geppo, quello del fumetto omonimo, sta dalla parte sbagliata pur volendo fare la cosa giusta. Il suo è un retaggio troppo forte, a questo punto soverchiante. Quell’impostazione che parla «cinematografese» in maniera quasi sciovinista, nonostante il suo desiderio di instaurare un qualsivoglia dialogo sia sincero. Così la sua ambizione, che è motore, è anche la sua croce. In altre parole, vorrebbe un videogioco nuovo, dedito alla narrazione, catalizzatore di storie e fondamentalmente slegato da ogni altro mezzo; dimostrando invece l’esatto contrario, ossia che il videogioco mal tollera che lo si pieghi a tali aspirazioni. E tanta più violenza si usa nel volerlo forzare, quanto più goffa, commovente appare la negazione. Dio solo sa quanto coraggio uno debba prendersi per dire certe cose, ma è bene che lo si faccia. Non solo per amore della verità, ma per tutti, per noi, per Cage. Quello di David è un tonfo. Meraviglioso, aggraziato, spettacolare. Ma pur sempre un tonfo. Immagino che le menti troppo assorbite dai numeri stiano ipotizzando terribili insufficienze, 3 o 4 su 10 secchi, senza possibilità d’appello. Ed invece, nonostante tutto, io a Beyond: Two Souls darei 10. Sì, avete letto proprio bene, DIECI! Schizofrenia la mia? Per nulla. Il titolo in questione va giocato da chiunque si interessi poco più che marginalmente a questo settore. Non da quelli a cui piace giocare; cioè, se lo reputano opportuno anche loro possono e devono, ma se il punto è semplicemente come passare il tempo, beh diciamo che Beyond non è imprescindibile. Dunque come mai non va assolutamente perso questo gran bel pezzo di videogioco? Ma perché questo rappresenta una delle migliori, se non la migliore, tesi a detrimento di chi non ha ancora capito che il videogioco può e deve essere radicalmente indipendente. Pena non essere affatto. E non dico indipendente nel senso di sviluppato al di fuori del circuito, da realtà per l’appunto indipendenti (i cosiddetti indie game developer). No. Con Beyond il mezzo, la sua essenza, la sua unicità, reclama a gran voce il diritto, l’obbligo da pare nostra ad accettarlo così com’è, non così come vorremmo che fosse. L’uomo racconta storie da un’eternità. A conti fatti la sua, la nostra è una Storia. Sin dai tempi del buio pesto e del gelo, quando il fuoco non c’era o non sapevamo che ci fosse. Passando poi da quei falò attorno ai quali, sede privilegiata, uno parlava e gesticolava mentre tutti gli altri tacevano ascoltando inebetiti. La nostra razza non potrà mai vivere senza almeno una storia. Senza cibo, forse, ma non senza qualcuno che sappia nutrirlo di quell’altro pane. Ebbene, il videogioco non vuole essere caricato di un simile fardello. Quantomeno, non alle condizioni che già conosciamo. È come un’anima in pena, [SPOILER] come quelle di mamma e figlia Dawkins, che Nathan egoisticamente lascia atrocemente soffrire in quel limbo tra due dimensioni, mentre vengono dilaniate nello spirito e forse anche nel corpo [/SPOILER]. Così è questo medium, che tanto ha ancora da imparare, e che tanto ha assimilato per osmosi da Arti che sono tali, senza bisogno di passarle in rassegna una per una. Compreso il cinema, certo, al quale in parte è anche debitore. Ma per quanto ancora il videogioco dovrà pagare al fine di estinguere tale debito? Ed il bello è che l’usuraio non è il cinema, bensì  sembrano sempre più essere coloro che da questa condizione vorrebbero liberarlo il videogioco. Cage, dinanzi al quale mi mozzicherei la lingua anche solo prima di pensarlo come un usuraio, è come Nathan Dawkins: lacerato dall’amore per l’idea che ha circa il futuro di questo mezzo, sta facendo una fatica immane per capire che la soluzione migliore è anche la più semplice. Lasciare andare. Liberare la sua ambizione dalle catene che la tengono impunemente incarcerata, presa in ostaggio da quell’eterno doppio che in questo caso è la sua ambizione stessa. Un fardello, quello dei visionari. Dei veggenti, quelli di altro tipo, si diceva che Dio inviasse loro messaggi sotto forma di immagini, voci o che so io. Ebbene, mai però, in nessun caso, che forzasse questi nell’interpretazione, anche solo al livello di immagazzinamento. Ecco, il sottoscritto qui dichiara di non aver mai dubitato, né dubita, che De Gruttola David (vero nome di Cage, omen nomen) sia un profeta. Lo è, e con tutte le carte in regola. Solo, è tempo di fare ordine. Di approcciarsi alle visioni da cui è investito mediante un’altra prospettiva, quella che solo lui deve imparare a conoscere. Perché il «messaggio» è esponenzialmente più grande del messaggero; quest’ultimo non può che arrendersi ad esso. L’unica cosa che resta da scegliere è come: meglio la diabolica perseveranza o la soave, dolce resa?

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